MIRACOLI!
Note al progetto “MIRACOLI!/FUORI DAL GIRO”
Nel buio, tre uomini si agitano
strenuamente cercando di staccarsi dalle pesanti catene che li imprigionano. I
loro sforzi resterebbero vani se a un tratto non arrivasse a liberarli un
bizzarro personaggio, una sorta di maestro di cerimonie, che poi li invita ad
abbandonarsi ai piaceri di una fumeria d’oppio e alle visioni che i vapori di
un narghilè possono evocare.
Le vicende e le traiettorie esistenziali
di “Miracoli” nascono da qui: dalla umana, e pur tuttavia assurda, idea che
possa essere qualcuno (uno spacciatore?), o qualcosa (una polvere bianca? una
siringa e un laccio emostatico?), a sgravarci dai fardelli della quotidianità e
dai fantasmi che coltiviamo nell’animo. Salvo poi scoprire che il mondo a cui
quell’idea ci introduce è un concentrato di inimmaginabile sofferenza e di
continue, sanguinose, cadute. E di ri-cadute, per usare un termine clinico così
drammaticamente comune a tante storie di dipendenza.
Sarebbe difficile descrivere appieno la
sostanza di quanto messo in scena se non accennando, almeno brevemente, al
percorso che ha portato alla ribalta queste tematiche. “Miracoli!” è infatti il
prodotto di un intenso laboratorio a cui hanno partecipato, sotto la
supervisione mia e di Marcello Cotugno e Gaia Vernassa, gli altri due ideatori
del progetto denominato Fuori dal Giro,
i giovani ospiti della Comunità di recupero per tossicodipendenti AIVA di
Nettuno (Roma). Ciò che vi si rappresenta è pertanto ispirato alle narrazioni
autobiografiche emerse in seno al Laboratorio e che hanno poi costituito il
motore degli esercizi teatrali veri e propri.
Si tratta di storie che decisamente
inducono a ripensare al (pur inflazionato) concetto della “realtà che supera la
finzione”. In cui i ricordi portano a infanzie di stenti e paure, a rapporti
regolati solo dall’opportunismo o dalla disperazione, a luoghi angusti dove ci
si sente soli, poveri, reietti. In cui l’abuso di sostanze e la dipendenza –
intesa come perdita della capacità di scegliere e di desiderare – sono alla
base di eventi eccezionali e memorabili (ergo, straordinariamente teatrali), ma
che chiunque, se potesse, farebbe a meno di vivere.
Ciascuno le ha raccontate – e ascoltate
- ridendo e piangendo, emozionandosi e certe volte provando a “scappare”,
perché magari dilaniati dal dolore che si sprigiona quando si va a toccare
certe cicatrici, o più banalmente perché le cose intime è complicato
condividerle, e le si regala agli altri solo a prezzo di pudore e imbarazzi. Ma
poi quelle vicende sono diventate patrimonio di un gruppo, che ha voluto
(divertendosi!) romanzarle e adattarle al linguaggio teatrale. Che le ha
portate, diremmo “alle estreme conseguenze” spettacolari, rendendo quindi certi
contenuti finalmente filtrabili/trattabili attraverso i più vari registri: il
grottesco, il tragico, il comico. Per poi, alla fine, ripescare nella memoria,
come naturale contrappunto al dolore, anche fugaci momenti di gioia, concreti
segnali di speranza, importanti progetti di rinascita.
È in questo
senso che crediamo che il teatro possa ritenersi davvero terapeutico. Non
perché guarisca malattie o azzeri debolezze e limiti. Non perché ci metta al
sicuro da nuove rovinose cadute. Ma perché quelle cadute può insegnarci a
guardarle negli occhi e a non viverle come inesorabili fallimenti, bensì come
la parte di un tutto, la vita, che improvvisamente può stupirci con la bellezza
e la poesia, a patto che si sia abbastanza lucidi da non lasciarsele scappare.
Così come Sisifo era condannato in
eterno a veder rotolare giù a valle il macigno che con tanta fatica aveva
spinto in cima, anche l’uomo è condannato a salire continuamente su ripide
scale per poi ripiombare a terra (non è un caso che una scala occupi il centro
del palco). Ma in questo supplizio, esiste forse un momento, lì in cima alla
salita, in cui riposarsi e godersi il panorama. Un punto di osservazione che ti
consenta di vedere e sentire il prossimo (il pubblico) che comprende,
solidarizza, aiuta.
Gianluca Ficca
FUORI DAL GIRO - Dal laboratorio allo
spettacolo
Ci sedemmo dalla
parte del torto , visto che tutti gli altri posti erano occupati.Bertolt Brecht La realizzazione del progetto Fuori dal giro/Miracoli!, ha avuto una
lunga gestazione. Il format di auto-narrazione da me creato (ispirato ad un
famoso esercizio che si fa nelle classi di recitazione),a cui si rifà il progetto, ha infatti avuto, negli ultimi sei anni,
diversi campi di attuazione.
Ma Fuori
dal giro è stata una vera evoluzione del format. Infatti il progetto ha
avuto, grazie al contributo della Chiesa Valdese, un’opportunità realizzativa a
lungo termine, dando la possibilità ad operatori e ‘allievi’ di poter provare e
sperimentare in fase di laboratorio per circa nove mesi. E d’altra parte, il
percorso ha previsto, oltre alla fase pratica del laboratorio teatrale, momenti
di vita comune, realizzazioni di interviste e interazione con il mondo del
teatro.
Per quanto riguarda il laboratorio, avevamo
bisogno di un testo d’ispirazione a cui fare riferimento, e, lavorando con un
gruppo di detenuti ex-tossicodipendenti, la scelta è caduta su Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane, un
testo cardine per tutte le nuove generazioni di teatranti, in cui la nevrosi,
la depressione, la dipendenza, portano la protagonista al suicidio.
Attraverso un lavoro sia fisico che di
parola, abbiamo raccolto le storie e le testimonianze dei detenuti,
alimentandole con il confronto con attori professionisti, e ascoltando, senza imposizioni,
le possibilità espressive dei singoli partecipanti al progetto. Elaborando
queste istanze, abbiamo dato voce alle inclinazioni di ciascuno e abbiamo
quindi assecondato queste skill nel
percorso verso la dimostrazione finale del progetto.
Tutto questo ha portato alla creazione
di una compagnia mista di attori, detenuti e operatori sociali, dal cui
incontro è nato, per caso, lo spettacolo Miracoli!. Il caso si riferisce al fatto che, una volta realizzata la dimostrazione davanti al pubblico,
che avrebbe dovuto concludere il lungo percorso iniziato lo scorso novembre, ci
siamo resi conto, vista l’accoglienza appassionata dei presenti, che il
progetto sarebbe potuto diventare un vero e proprio spettacolo. E così,
nonostante il laboratorio fosse terminato, abbiamo rimesso in circolo idee, riaperto
le prove, rielaborato scene, aggiunto pezzi e lo abbiamo riproposto per quattro
repliche al Teatro Tordinona.
Dal punto di vista della regia è stato fondamentale lavorare col team di Teatroshock
- un dramaturg, Gianluca Ficca, anche
psichiatra, e una trainer psicomotricista, Gaia Vernassa - per interpretare le sollecitazioni
che di volta in volta venivano alla luce durante il percorso delle prove,
portandoci, tra l'altro, a staccarci completamente dal testo guida di Sarah
Kane per ricercare una nostra propria originalità drammaturgica. Affiancare ai
nostri attori/detenuti, Vito Barbuto, Fabio Tuscolano e Luigi Gasparri, due
giovani attrici, Miriam Galanti e Agustina Risotto Interlandi, è stato un
interessante momento di confronto sia generazionale che esperienziale. Altri
detenuti, Castrese Carandente e Mirko Casadei hanno preferito collaborare solo alla
drammaturgia, portando comunque la loro esperienza e il loro contributo anche
durante lo svolgimento delle prove. L’idea di portare sulla scena anche la
direttrice dell’AIVA, Annamaria Boano e l’operatore sociale Simone D’Ercole, ha
fatto sì che sul palco si ricreasse un microcosmo non distante da quello della
comunità. Un rimescolarsi delle competenze, dei ruoli, ha ribaltato le
dinamiche e ne ha fatte nascere di nuove.
Un crossover tra il teatro utile di cui parlava
Brecht, il literary drama e il teatro della morte di Tadeusz Kantor
per dare una scossa, anche piccola, alle vite di chi agisce sulla scena e di
chi guarda dalla sala.
Il teatro, forse, non può cambiare lo
stato delle cose, ma può far aprire
delle finestre di senso nella vita di persone segnate dalla sofferenza, dalla dipendenza
e da un destino spesso già scritto in partenza.
Ed è alla fine sulla scena che i Miracoli! – laici – avvengono, mostrando umanità differenti, vive, che,
sorprendendo noi, finiscono col sorprendere anche il pubblico, esprimendo,
forse per la prima volta, i lati nascosti delle loro personalità, intravedendo un’illusione
di cambiamento, aprendo una piccola porta verso un futuro possibile, aldilà di
retorica e di falsi ottimismi.
Marcello Cotugno
MIRACOLI! – Lo spettacolo
Sono nato nel
'75 era aprile ed era il 7 ed ho trasformato l'ansia di esistere in due belle
motociclette. É commovente vivere nel miracolo: ogni ostacolo
che c'è tra te e il piacere salta. L'amarezza diventa un gelato, l'inquietudine
una raccolta. La vanità diventa una boccetta, la solitudine
una bolletta…Dario Jacobelli (Miracoli)
All’inizio del percorso di Miracoli! non avevo ancora chiaro in mente lo sviluppo della messinscena, ma sapevo che
volevo qualcosa di emozionante, intenso e allo stesso tempo pop. Sapevo inoltre che a scene di
racconto si sarebbero intervallate situazioni performative di natura non
narrativa.
Ispirato dall’idea brechtiana di ‘teatro utile’ ero inoltre deciso ad
abbattere la quarta parete, costruendo un dialogo tra attori e spettatori che
avesse la potenza di una confessione, l’urgenza di una domanda a cui il
pubblico avrebbe dovuto poi trovare una risposta dentro di sé.
Lo spunto iniziale per la realizzazione di Miracoli! è stato quello di raccogliere le storie dei partecipanti
al laboratorio Fuori dal Giro. Ne
sono venute fuori una decina, articolate lungo quattro temi principali:
l’infanzia, la svolta, la caduta, la rinascita. Non tutti i membri del gruppo
hanno raccontato il ciclo completo delle storie, né tutti hanno poi voluto che
si rappresentasse ciò che avevano raccontato. Poi, partendo dalle storie
raccolte, siamo passati, da una prima fase d’improvvisazione, alla costruzione,
assieme al dramaturg e alla trainer di una partitura narrativa e
gestuale.
Lo stile di Miracoli! risente
dell’incontro tra registri e modalità molto differenti: dal racconto
autobiografico al racconto interpretativo, dal musical indie all’esibizione
live (sul palco un detenuto attore esegue il brano Niente è per sempre, di cui è autore), fino a momenti di
performance fisica. Molte storie sono raccontate da una voce fuori campo,
utilizzata assieme al microfono per amplificare l’audio dei protagonisti, quasi
a voler urlare la loro espressività perduta e qui ritrovata. Tale multiformità
ha permesso di sviluppare un ritmo incostante, sinusoidale, spiazzante, nella
convinzione che in un equilibrio tra fruibilità, ricerca e contenuto risieda
l’alchimia del teatro contemporaneo. Le scene sono come epifanie strindberghiane, frammenti da ricomporre
nella testa dello spettatore, in uno spettacolo dove il plot, se c’è ,è ben nascosto nelle note di una musica, di un gesto,
di parole non dette.
Nel lavorare assieme ad attori non professionisti, abbiamo cercato di
evitare l’accademismo privilegiando un contatto e un dialogo più istintuale che
intellettuale. Si è quindi stabilita una fiducia reciproca che, nel tempo, ha
permesso agli attori-detenuti di tirare fuori un livello di espressività forte,
denso, mai scontato. Il lavoro con le due attrici, d’altra parte, mirato
all’interpretazione dei racconti autobiografici dei detenuti, ha richiesto un
complesso processo di elaborazione drammaturgica e costruzione scenica. Lavorare
con tre tipologie di attori, detenuti con un passato di dipendenza, attrici
professioniste e operatori della comunità, ha dato un ampio spazio al confronto
e ha reso vivo e attento lo scambio sul palco.
I costumi sono essenziali, monocromatici e simbolici, a mostrare come la
forma minimale possa far risaltare ancora di più la sostanza del racconto. Le
luci puntiformi, a volte colorate, delimitano spazi, emozioni e situazioni, che
si parli di un’immaginaria e onirica ora d’aria o che si riviva un primo,
innocente furto da ragazzini.
La scena scarna vive di citazioni, dalla scala di Nekrosius, alla sedia di
Tadeusz Kantor (dove siede come prima spettatrice l’anziana responsabile della
comunità di recupero da cui provengono gli attori-detenuti), al tappeto di
Peter Brook, in una povertà di mezzi che richiama gli objects trouvèe delle avanguardie del novecento. Lo sfondo, nero,
rivela nel finale un mosaico di immaginette di santi, le stesse che si
ritrovano nelle celle di molti carceri e che richiamano l’accanita religiosità
di certi criminali. I santini evocano l’urgenza di un’appartenenza comunitaria,
identitaria, come resistenza estrema alla deriva del sé.
Ma è lo spazio scenico, in realtà, a offrirsi come frontiera di un
possibile altrove, uno spazio spirituale ma laico, un luogo dove poter
ritornare, ancora e ancora, per evadere da un futuro im/possibile.
Marcello
Cotugno